“L’albero di Maehwa” di Gian Ruggero Manzoni è romanzo di catabasi e anastasi (per dirla alla Emile Zola), è il romanzo della caduta e della resurrezione dell’umanità di Ponente. Il protagonista, Riccardo Celsio Leardi, pseudonimo Nessuno, è il protagonista dell’ultima epopea dell’eroe solitario. È l’ultimo gladiatore, il perdente destinato all’impresa, il vate inascoltato, l’intellettuale perduto tra nichilismo e titanismo. Ma è anche l’eroe tragico classico per antonomasia, sospinto dai venti del fato verso la dannazione. Una personalità intessuta dal preciso orgoglio di essere “fuori moda”, di vivere una vita “fuori moda” e “fuori modo” eppure, a suo modo, così dentro il mondo. Un orgoglio che deriva dalla coscienza di Nessuno di essere nella vita e nell’arte lo stampo di se stesso e di nessun altro. Un orgoglio che a tratti si stempera in quella carica ironica così cara all’autore, una barbarica ironia a dominante mistica. Qualche giorno fa abbiamo parlato con Gian Ruggero Manzoni del film “Gli spietati” – lo splendido lavoro di Clint Eastwood. Riccardo Celsio Leardi possiede proprio quella ‘tenera’ ferocia di alcuni personaggi eastwoodiani, ma anche di certi eroi da cinema orientale d’autore depositari di una violenza lirica e malinconica, come se ne trovano nella trilogia della vendetta del coreano Park Chan-wook. Una violenza vicina al modello pulp che sembra rivivere nella crudezza e nel gusto per l’eccesso di alcuni passaggi de “L’albero di Maehwa” con la differenza fondamentale che con questo romanzo Gian Ruggero Manzoni reiventa la narrazione di genere in chiave di impegno civile e di tensione epica.
Tutti i personaggi de “L’albero di Maehwa”, ognuno a proprio modo, mettono in gioco se stessi in una sfida con la morte che è salvifica, anzi, per qualcuno, rappresenta l’unica salvezza, il solo riscatto per una vita sbagliata. La vicenda narrata ne “L’albero di Maehwa” è, per i suoi personaggi bergmaniani, una vera e propria ristrutturazione di personalità, una ricostruzione di identità, seppure estrema e definitiva, senza ritorno. Il libro si apre con la grande metafora del bonsai, l’albicocco nano, la miniatura di mirabili proporzioni, vecchia di duecento anni, che tante vite ha vissuto, rimanendo sempre uguale a sé. Una metafora che rappresenta la storia umana e la memoria di questa storia stratificata nella scrittura. Una scrittura della memoria che deve essere coltivata e curata con un assiduo impegno liturgico e mai dimenticata, pena la perdita dell’identità. Non a caso la cura del Maehwa è affidata a Riccardo, il protagonista, uno che, per dirla con l’autore, ha “il sacro e la ritualità sacra ben piantati dentro”. E a proposito dell’autore, trovo affascinante la definizione che Andrea Ponso suggerisce per Gian Ruggero Manzoni: non solo, o non tanto, uomo di teatro, ma, piuttosto, “uomo teatro”, nel senso di “uomo evento”. Un uomo destinato a vivere la letteratura e l’arte come condizione di vita e a pagarne fisicamente il prezzo. Un uomo, un intellettuale, un artista che, prima d’inscenare i propri lavori teatrali, mette in scena se stesso, senza remore e infingimenti, sul palcoscenico della vita (che poi, in fondo, è l’unica forma di teatro veramente radicale e totale).
La scrittura letteraria de “L’albero di Maehwa” è un’originale commistione di lingua alta e bassa, di flussi quasi vernacolari e di invettive contro i poteri forti nel mondo, ispirate da una limpida ideologia umanistica, efficaci nella loro semplicità e immediatezza. E anche l’arte e la letteratura sono dominati da poteri forti, come narra il protagonista, Riccardo, alias Nessuno, a Libero, suo unico amico, boxeur d’altri tempi, al quale resta la fierezza come unica arma. “Se non stai alle regole sei fuori”, dice Nessuno a Libero. E bisogna dire che, specularità autobiografiche a parte, Gian Ruggero Manzoni non è mai stato alle regole del gioco, in particolare ha sempre rigettato le regole imposte dal mercato dell’arte e della letteratura, ricevendo in cambio il farisaico ostracismo dell’establishment culturale italiota. Gian Ruggero Manzoni, e lo sa bene chi lo conosce appena, possiede competenze e interessi preziosi che spaziano dall’arte visiva alla filosofia, dalla letteratura alla scienza, dall’ebraismo alla teologia, dalla teoria dell’arte alla scrittura per il teatro, dalla politica all’arte militare. Ma quello che conta, al di là del suo naturale eclettismo, è che Gian Ruggero è uno dei pochi, pochissimi intellettuali italiani dotati della proprietà di essere veri, non nel senso di essere depositari della verità e nemmeno nel senso del verismo/spontaneismo paratelevisivo di tanti presunti grandi comunicatori, bensì nel senso di non simulare o dissimulare se stessi attraverso ideologie e posizioni di comodo.
Gian Ruggero Manzoni vive l’arte e la letteratura come azione e la agisce. Non a caso è anche raffinato artista visivo, pittore di tempeste cromatiche, di simboli e di percorsi gnostico-totemici perché, come dichiara in quello che è un verso – epigrafe de “Il mercante di allodole” (1977) – “Chi comprende i simboli con le mani è l’unico uomo libero”. La sua dimensione artistica è dunque prima di tutto una prassi, un’azione razionale di scardinamento ma anche viscerale di creazione. Il suo fare è il fare per cambiare il mondo. Premesse e assiomi meta-artistici già evidenti nel manifesto de “Il Visceralismo”, la corrente di pensiero fondata dall’autore poco più che ventenne nel 1979. Ma quale è il segreto di questo equilibrio viscerale tra pensiero e azione? La ricerca della giusta relazione tra pensiero e azione è da sempre un universale culturale per l’intellighentia, le classi intellettuali di tutte le epoche storiche. E sia per gli intellettuali che per gli altri uomini, molte sono le tecniche e le filosofie che pretendono di insegnare l’arte di questa superiore omeostasi. Lo sciamanesimo tolteco, di castanediana memoria, ne rivela il segreto nell’arte del guerriero – definita anche arte del battitore – una vera e propria scienza del comportamento impeccabile attraverso la manipolazione della percezione.
Gli “uomini di conoscenza” toltechi vedono pensiero e azione perfettamente fusi nello stadio sublime della libertà, ma per raggiungere questo stadio non operano riti esotici e incantesimi sanguinosi, non creano pozioni magiche. La vera e unica magia per essere liberi, secondo Don Juan Matus, è nel vivere impeccabilmente, applicando l’arte del battitore. “Un guerriero è un cacciatore perfetto che dà la caccia al potere… un guerriero-cacciatore ha contatti stretti con il suo mondo, ma al tempo stesso a quel mondo è inaccessibile… un guerriero è spietato perché non indulge all’autocommiserazione; è paziente perché sa rinunciare all’aspettativa e avere fiducia nell’intento; è gentile perchè sceglie e percorre sentieri che hanno un cuore”.
Sono convinto che questa descrizione un po’ epica bene si attagli all’uomo e all’intellettuale, oltre che all’artista Gian Ruggero Manzoni, figura limpida di pensatore e attore (nel senso di agire l’arte) che sembra incarnare proprio questo eponimo mitografico e letterario, il guerriero/battitore di Don Juan Matus, paziente nella sua perenne ricerca di una funzione civile dell’arte, nella sua incrollabile fiducia nell’intento di una letteratura vissuta come condizione e atto politico di libertà e non come professione di credo e potere mediatico da spartire in consorteria. Non a caso, il Manzoni pittore e scrittore, poeta e teorico dell’arte, al di là dell’indubbio carisma “leonardesco”, al di là del sangue “favoloso” di Alessandro o più terrestre di Piero Manzoni che scorre nelle sue vene, è, soprattutto, un “battitore” di piste difficili verso la libertà, verso un senso superiore dell’esistenza. Questo è il karma degli anni trascorsi nei posti caldi della terra come volontario del Battaglione S. Marco o di quelli passati a insegnare storia dell’arte nelle Accademie di Belle Arti; questo è il senso dell’incessante impegno nella narrativa e nella poesia, nel teatro e nelle arti visive, in favore di una cultura “altra”, liberata dai lacci del consumo dei non-luoghi della postmodernità, in favore di un’arte libera di andare; e questo è il significato della sua spietatezza nei confronti dell’invalidante Morbo di Crohn che lo ha colpito anni fa e alla ricerca sul quale morbo l’autore devolve tutti i proventi delle sue opere. Ma questo è anche il significato della battaglia che gli “eroi” de “L’albero di Maehwa” devono combattere quotidianamente contro quell’aggressione sociale che io chiamo la tecnocrazia del lutto – tra l’altro splendidamente incarnata da due memorabili personaggi della mafia russa, veri e propri critici e cultori d’arte dalla fine sensibilità – sì, quella battaglia quotidiana contro la tecnocrazia del lutto che io vedo come stadio ulteriore e successivo alla società dello spettacolo, così profeticamente vista da Guy Debord nella sua omonima opera incendiaria del 1967.
Io vedo un Occidente tecnocratico e plutocratico nel quale i cosiddetti poteri forti, le multinazionali, la finanza e la politica virtuale (perché l’economia e la politica non esistono più da tempo in Occidente), dopo aver mercificato l’uomo e i suoi desideri – corrompendoli in bisogni – stanno adesso vendendo la morte un tanto al chilo. La stanno svuotando di senso e mercificando attraverso lo strapotere della triade: armi, guerra, petrolio… soprattutto attraverso l’imperversare della guerra infinita per il petrolio, condotta dal sanguinoso esercito monoteista globale. Dunque, se le convenzioni di mercato non valgono, per Gian Ruggero Manzoni esistono ben altre regole: le regole senza tempo della storia umana, le regole non scritte della civile convivenza con l’alterità, con l’altro da noi, come emerge dall’accorato incontro tra la madre di Riccardo – singolare figura di aristocratica disillusa – e la bellissima Fatma, depositaria di un rigenerato futuro della decaduta stirpe nazionale.
La figura di questo eterno femminino mediterraneo, di Fatma, bellissima e sacerrima donna algerina, è la vera protagonista del romanzo e vive magistralmente in alcune pagine di un erotismo denso e vibrante. Fatma è un personaggio per il quale bisognerebbe riconvertire l’etimo di sensuoso e farlo derivare da una fusione di flessuoso e sensuale. Ma Fatma possiede anche il dono della ricettività creativa e della memoria storica dell’umanità di Levante. Non a caso nel romanzo è la guida, la salvatrice e, in un certo senso, anche la “carnefice salvifica” di Riccardo, colei che lo “dannerà” alla resurrezione. Per questo amo “L’albero di Maehwa”, ancora più di quanto ho amato e apprezzato l’ultimo romanzo di Gian Ruggero Manzoni, “La Banda della Croce”, perché, con quest’ultimo lavoro, in misura ancora maggiore rispetto alle precedenti opere, l’autore incide un segno profondo nella coscienza dell’uomo contemporaneo. Reinventando il romanzo di genere in chiave di testamento civile, spazzola via la forfora dell’intrattenimento di tanta letteratura cannibale o pseudocannibale e rivela lo specchio tristemente vuoto degli autori dei best seller per un giorno. Il punto è che, a differenza di tutti gli altri pseudoartisti e pseudoautori, Gian Ruggero Manzoni ha cose da dire e le dice con voce ferma e instancabile, perchè le ha vissute e continua a viverle. Queste cose hanno il profumo del futuro. Parlano di quello che ci sta accadendo e che ci accadrà nei prossimi anni. Raccontano dell’Italia di oggi e dell’Occidente di oggi. E della pari stupidità dei vari occidentalismi e orientalisti, camuffati in apocalittici scontri di civiltà. Svelano l’ignavia e l’incoltura-incultura di una politica che pretende di arginare la disperazione del mondo introducendo nuove figure di reato. Scoprono la mancanza del senso della storia in coloro che dovrebbero insegnarla. Perché questa è letteratura che, al pari del protagonista del libro, non ha paura di morire sapendo di rinascere nella pancia del mondo. E anche perché, e scusate se è poco, come afferma il Don Juan Matus di Carlos Castaneda, “l’arte del guerriero e dell’artista sta nel bilanciare il terrore di essere uomo con la meraviglia di essere uomo”.
testo di Luigi Fabio Mastropietro (In occasione della presentazione del libro "L'albero di Maehwa"
di G.R.Manzoni a cura del Centro Culturale Abraxas in Santa Croce di Magliano (CB) - giugno 2008)